L’articolazione del ginocchio è particolarmente esposta a usura e lesioni di varia natura a causa delle numerose e costanti sollecitazioni cui è sottoposta. Le problematiche – in questo “snodo” così importante per il normale svolgimento delle attività quotidiane che richiedono spostamenti nello spazio – sono sempre in agguato ed è molto importante riuscire a intervenire nel più breve tempo e nel migliore dei modi per cercare di ristabilire, nei limiti del possibile, una situazione di normalità.
Da questo punto di vista, fondamentale è il ruolo dell’ortopedico e del chirurgo ortopedico, specialisti cui è affidato il compito di curare i problemi già presenti o quelli destinati a evidenziarsi e a rendersi più complicati già nel futuro più prossimo. Parliamo di problematiche del ginocchio e delle loro possibili cure con il dottor Vincenzo Madonna, responsabile dell’Unità Operativa di Ortopedia e Traumatologia di Humanitas Castelli di Bergamo.
Dottor Madonna, quali sono le opzioni di cura legate ai problemi che possono riguardare il ginocchio? Si deve ricorrere sempre alla chirurgia?
«No, la chirurgia non è l’unica soluzione. Il nostro compito è proprio quello di analizzare le specifiche problematiche e delineare le strategie di cura più adatte ed efficaci, quelle che permettono alle persone di ritrovare il loro benessere fisico e, di conseguenza, anche quello psicologico. Tenendo sempre fede al nostro approccio basato su tre principi fondamentali, che rispondono alle azioni del preservare, riparare e ricostruire».
Cominciamo allora dal concetto di preservare. Come viene attuato?
«La nostra idea è che si debba ricorrere all’intervento chirurgico solo quando ce ne sia l’effettiva necessità e sempre preservando, quando possibile, la funzione delle strutture anatomiche esistenti. Faccio l’esempio dei menischi, le strutture fibrocartilaginee che sono poste tra il femore e la tibia e che svolgono un’attività fondamentale sia dal punto di vista della distribuzione dei carichi sia da quello della stabilità articolare, per cui è importantissimo preservarne l’integrità».
Come mantenere, quando possibile, questa integrità?
«Dipende ovviamente dall’entità e dal tipo del danno subito dal menisco o dai menischi. In presenza di lesioni di natura degenerativa è molto utile ed efficace il trattamento conservativo che, sfruttando le potenzialità della fisioterapia, consente di minimizzare le conseguenze dell’usura meniscale. Lo stesso può essere fatto, per fare un altro esempio, nel caso di lesioni lievi a carico di un legamento, ambito in cui si può intervenire con un processo riabilitativo delle funzionalità motorie del paziente. Utili possono inoltre essere le applicazioni dei campi elettromagnetici pulsati (CEMP) a bassa intensità, trattamento molto pratico che permette di raggiungere ottimi risultati, anche dal punto di vista del sollievo dal dolore».
Passiamo alla seconda azione, quella del riparare…
«Non sempre, purtroppo, si può preservare una struttura anatomica che si è danneggiata, a volte è necessario ricorrere alla chirurgia che può essere di due tipi: riparativa o ricostruttiva. Ovviamente anche in questo caso ogni situazione clinica rappresenta un caso a sé, ma la regola generale che applichiamo nello specifico nel caso delle lesioni a carico dei menischi è sempre una e sola: tutto quello che si è rotto va riparato. In passato non era così: quando si lesionava, il menisco era considerato inutile e veniva rimosso. Oggi, che invece ne conosciamo il ruolo essenziale, quando possibile evitiamo di asportarlo e procediamo alla sua riparazione, effettuando una sutura meniscale in artroscopia, che è un intervento del tutto mini-invasivo».
È sempre possibile riparare un menisco lesionato?
«No, ci sono casi in cui la sutura non è praticabile. Nei casi più gravi, ad esempio quelli per cui il fastidio persiste dopo mesi o quelli in cui la lesione è instabile e causa blocchi articolari, si può dover ricorrere ad altre soluzioni chirurgiche, come la meniscectomia, con cui si procede a rimuovere la parte di menisco che risulta essere danneggiata».
E siamo al terzo punto fermo dell’approccio da voi osservato, quello che riguarda la chirurgia ricostruttiva? In che cosa consiste?
«È il tipo di chirurgia che permette di intervenire in presenza di lesioni gravi dei legamenti o di lesioni multilegamentose, che coinvolgono dunque più legamenti contemporaneamente. In questo secondo caso l’intervento chirurgico può riguardare in un’unica soluzione tutti i legamenti coinvolti oppure può essere impostato su singole sezioni, con periodi di recupero muscolare e articolare tra un intervento e l’altro».
Per quanto riguarda la ricostruzione dei legamenti, qual è il tipo di intervento che può essere ritenuto più efficace?
«Il tipo di intervento migliore è quello che utilizza tendini autologhi, cioè prelevati dallo stesso paziente. Si tratta di un tipo di approccio però non sempre attuabile perché ci sono circostanze in cui i tendini del paziente non possono essere utilizzati, per esempio perché il suo è un caso di lesioni multilegamentose e quindi c’è l’esigenza di intervenire su più legamenti, o perché la persona in precedenza è stata sottoposta a un intervento di prelievo tendineo. In questo caso si può quindi prendere in considerazione l’impiego di tendini “di banca”, provenienti da strutture sanitarie pubbliche, che conservano e distribuiscono i tessuti destinati al trapianto, certificandone l’idoneità e la sicurezza».
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